"Regista tedesco di origine austriaca. Studia al Politecnico di Vienna, ma viene presto attratto dalle discipline umanistiche, in particolare dalle arti figurative, e si iscrive all'Accademia di belle arti di Monaco. Comincia a viaggiare per l'Europa, vivendo come pittore ambulante, ma allo scoppio della prima guerra mondiale è arruolato nell'esercito e viene ferito in battaglia. È durante la convalescenza che si accosta alla scrittura cinematografica. Dopo aver realizzato per il produttore E. Pommer la sceneggiatura di Matrimonio al club degli eccentrici (1916), diretto da J. May, nel 1918 passa alla regia con Halb-Blut, e l'anno successivo con Der Herr Der Liebe (1919), seguito subito dopo da I ragni (1919), film a episodi ambientato in varie parti del mondo. Non abbandona però la scrittura, sceneggiando Il sepolcro indiano (1921, di J. May) in collaborazione con T. von Harbou (a quel tempo già piuttosto nota), che diventa sua moglie e che di lì in avanti non mancherà, con il suo gusto esotico e ridondante, di interagire con la personalità del marito, mai comunque in modo determinante, dato che il regista rivelerà presto la padronanza assoluta del set. Il suo primo film stilisticamente maturo è il successivo, Destino (1921), girato in pieno clima espressionista, scostandosi però da certe esasperazioni scenografiche tipo quelle di Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di R. Wiene. C'è subito, in Destino, una delle cifre costanti del suo cinema, e non solo di quello da lui realizzato in Germania durante la repubblica di Weimar: l'idea di mettere tra parentesi gli incubi più insostenibili, di trasfigurare nella forma del sogno le paure più profonde, quasi a voler sollevare lo spettatore dalla tensione, nondimeno lasciandone intatta la sostanza. Un'idea che, proprio dietro suo suggerimento, era già stata praticata nel Caligari (che in realtà gli era stato offerto da Pommer e che lui aveva rifiutato). È nel sogno, infatti, che la protagonista di Destino mette in atto tentativi disperati quanto inutili di salvare il proprio amato, vedendoli infranti ineluttabilmente da una forza fatale. Già si affaccia la sua visione dell'uomo il cui agire si rivela inane, come dominato da una potenza superiore che lo trascende. Una visione che si rifletterà nelle architetture, negli scenari, nella grande suggestione di quasi tutte le sue opere. Il film che segue, Il dottor Mabuse (1922), strutturato in due parti (prima, Il grande giocatore - Un quadro dell'epoca; seconda, Inferno: un ritratto degli uomini dell'epoca) è impregnato di atmosfere espressioniste e insieme carico di significati che travalicano il plot e i suoi personaggi, allargandosi verso un'inquietante percezione dell'angoscia sociale che attanaglia la Germania del tempo. Mabuse, dallo sguardo ipnotico (sulla targa del suo appartamento si legge la scritta: «Dottor Mabuse - Psycoanalyse»), dai poteri mentali straordinari, capaci di subornare chiunque, quasi un'incarnazione del male, evoca una figura diabolica che dissemina l'odio e la paura per offrirsi come unica ancora di salvezza dal caos. Una figura malsana, che solo il procuratore Wenck sembra in grado di contrastare, ponendosi però sullo stesso piano criminale. Intriso di superomismo, proteiforme, capace di ogni travestimento, Mabuse è il «tiranno» che si erge a dominatore di una società futura dove tutti sono sottomessi. Al di là delle varie allusioni alla figura di Hitler (che in realtà rispetto a Mabuse appare infima), il film coglie nel profondo le allarmanti pulsioni che investono la psiche collettiva e che sfoceranno nell'avvento del nazismo. L. stesso più avanti ne autorizzerà una lettura antinazista. Tra l'altro, il Mabuse sarà poi proibito, insieme con Il testamento del dottor Mabuse (1933), quest'ultimo girato in piena ondata hitleriana, quasi a rappresentare la terza parte di un ciclo. Intanto, tra il 1923 e il 1924 dirige I Nibelunghi, anch'esso in due parti (La morte di Sigfrido; La vendetta di Crimilde), sorta di epopea del mito ariano, nella cui sceneggiatura affiorano nettamente le tendenze della von Harbou. Il film che segue, Metropolis (1927), storia «futuribile» (che L. non amava) di una città ipermoderna, modellata su New York, secondo le parole stesse del regista, è uno dei titoli più famosi di tutta la sua filmografia. Alla sommità della scala sociale, una classe di ricchi padroni abita agiatamente la parte alta della città, piena di luce e di splendore; alla base, una classe supersfruttata vive nella parte sotterranea, buia e malsana. La ribellione operaia travolge tutto: macchine, case, e perfino i figli. Ma il finale è conciliatorio. Al di là della donna-robot, delle architetture ardite e degli altri elementi figurativi (che sedimentano nella memoria visiva anche grazie alla riedizione del 1984, virata e dotata di una colonna sonora rock curata da G. Moroder), Metropolis è disseminato di canoni espressionisti, che alludono al Caligari, al Nosferatu di Murnau, e ad altri film tedeschi dell'epoca, e perfino, qua e là, a tipologie «arcaiche» che richiamano, per es., il Der Golem und wie er auf die Welt kam (Il Golem e come venne al mondo, 1914) di H. Galeen e P. Wegener. L. ripropone l'atmosfera allucinata degli anni '20 con il film successivo, L'inafferrabile (conosciuto anche come La spia, 1928), un'altra potente allegoria (secondo l'interpretazione di S. Kracauer, non da tutti accettata) delle oscure forze che percorrono la Germania con quel loro senso indecifrabile di instabilità e di incertezza. Molti anni dopo, nel 1967, nel corso di una conferenza presso l'Università della California, il regista stesso avvalorerà l'interpretazione kracaueriana: «Nella prima metà degli anni '20 il cinema tedesco rifletteva l'epoca e i suoi umori cupi e disperati in film altrettanto tetri e minacciosi... Io stesso mi unii... con due personaggi: il grande criminale dottor Mabuse il giocatore, e la grande spia Haghi di L'inafferrabile». Esattamente come il dottor Mabuse, anche Haghi, capo di una banda di spie, è una figura dai molti travestimenti: dirigente di banca, invalido, clown ecc. Il fatto che alla fine, dopo complesse vicende, il personaggio venga smascherato e catturato, non attenua l'atmosfera malata in cui la vicenda si inscrive. L'inafferrabile viene girato quando la stagione del «silent cinema» va ormai terminando. In Europa la nuova tecnica tarda un paio d'anni e L. dirige il suo ultimo film muto, Una donna nella luna (1929). Si appresta quindi a realizzare il primo film sonoro, lo straordinario M, il mostro di Düsseldorf (1931), uno dei risultati più alti di tutta la sua filmografia. M è forse il film che meglio coglie i meccanismi complessi della società e della cultura tedesche nella loro deriva verso il nazismo, in un equilibrio mirabile di apporti psicanalitici, spunti politico-sociali e alta plasticità espressiva, immersi in un'atmosfera cupa e minacciosa. Il fatto di cronaca dal quale trae l'idea del film – il caso psichiatrico di Franz Beker, schizofrenico e assassino di bambine – riassume in sé tratti della labile psicologia di massa della Germania del tempo e scoperchia quella pulsione distruttiva, pronta a scaricarsi sui più deboli, che trova nel nazismo una specie di valvola di sfogo istituzionalizzata. Un'opera dalla forza quasi ipnotica, un incubo filmico ancor oggi non superato. Da antologia il quadro finale, di sapore brechtiano, in cui il laido omicida viene condannato dagli «stati generali» della mala riuniti in assise. Con M, senza prendere di petto il regime in ascesa, come farà nel successivo Il testamento del dottor Mabuse, L. riesce a costruire una icastica radiografia della genesi della tragedia tedesca, e infatti non a caso i nazisti (non ancora al potere) tentano in tutti i modi di boicottarne l'uscita. L'ultimo film tedesco del regista è proprio Il testamento del dottor Mabuse (1933). Anche se non perfettamente risolto sul piano estetico, mette in scena la già nota figura del pazzo Mabuse accentuandone i risvolti sanguinari in senso esplicitamente allusivo rispetto ai metodi criminali del nazismo ormai imperversante. L. lascia la Germania, anche perché ebreo, separandosi dalla moglie von Arbou, che invece aderisce al regime. Approda dapprima in Francia, dove gira La leggenda di Liliom (1934), e subito dopo attraversa l'oceano stabilendosi a Hollywood, dove J.L. Mankiewicz (non ancora passato alla regia) gli produce il primo film, Furia (1936), protagonista S. Tracy. L. sembra apparentemente cambiare registro: si concentra su una delle piaghe più brucianti della società americana, il linciaggio, a quel tempo riservato per lo più ai neri, ma spesso anche ai «diversi», ai «vagabondi», agli «stranieri». Un viandante di passaggio in una piccola città viene ingiustamente accusato del sequestro di una bambina. Scampa a malapena a una folla inferocita e finisce per sviluppare un sordo rancore, trasformandosi in una sorta di vendicatore. Essenziale e realistico, costruito attraverso un accumulo di situazioni apparentemente banali e invece progressivamente deflagranti sul piano drammatico, Furia risulta alla fine una delle opere più riuscite di tutto il periodo americano, malgrado il finale edulcorato imposto dal produttore. In realtà, se i toni cupi, le utopie minacciose e le visioni apocalittiche del periodo tedesco sembrano accantonati, il suo pessimismo, cioè quel senso tragico di un destino che getta gli umani in balia dell'«astuzia della storia», rimane ben solido, e attraversa anche i suoi film più «commerciali» indispettendo parecchio gli uomini di Hollywood. Così anche la sua seconda prova hollywoodiana, Sono innocente (1938) – in cui un piccolo balordo incarcerato per rapina e omicidio, e tuttavia innocente, fugge di prigione uccidendo senza volerlo un cappellano – è un film che raffigura un'immagine fatale della società americana. Una visione che si approfondisce e si rende esplicita nel successivo Il vendicatore di Jesse il bandito (1940), storia di Frank James che insegue gli uccisori del fratello Jesse, western non canonico, se non altro per la sequenza del tribunale, dove un avvocato (cioè il regista stesso) pone apertamente sotto accusa il capitalismo americano. Più esili sono invece Duello mortale (1941) e Fred il ribelle (1941), al contrario di Anche i boia muoiono (1942), film politicamente forte, dedicato alla resistenza cecoslovacca (su un soggetto di Brecht, sgradito allo sceneggiatore J. Wexley), che riesce a restituire pienamente, pur nei modi hollywoodiani, la corrucciata atmosfera della Mitteleuropa dominata dal nazismo. L'opera seguente, La donna del ritratto (1944), è la storia di un professore integerrimo che viene sedotto da una bellissima donna. Costei, dapprima ammirata in un ritratto, si materializza poi davanti a lui rivelandosi una fonte di perdizione. Un film dai risvolti inquietanti, che esibisce una concezione della tecnica onirica nella quale il sogno appare fortemente connotato di realtà, al contrario, per es., che in L. Buñuel, dove è il reale ad avere i caratteri del sogno. Prigioniero del terrore, girato nel 1944, precede La strada scarlatta (1945), film denso e asciutto che riproduce in chiave hollywoodiana La chienne di J. Renoir, ma indirizzando uno sguardo acidamente disincantato su una storia di degrado e di dissoluzione esistenziale. Seguono Maschere e pugnali (1947) – altro film antifascista, edulcorato dalla produzione perché avverso alla bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki – e, in successione, Dietro la porta chiusa (1948), Bassa marea (1950), I guerriglieri delle Filippine (1950), La confessione della signora Doyle (1952). È con Rancho Notorius (1952) che L. realizza il suo secondo e ultimo western, tanto eccentrico e dissonante nella sua scabra stilizzazione (in qualche modo anch'essa brechtiana) quanto suggestivo: un'altra opera di gran rango, in cui i personaggi (grandiosa M. Dietrich) ancora una volta si muovono verso un tragico e ineluttabile epilogo, e in cui ciascuno alla fine si rivela più spietato dell'altro. Mentre Gardenia blu (1953) si mostra di tonalità più bassa, non inferiore a Rancho Notorius appare invece Il grande caldo (1953), noir costruito su un'idea solo apparentemente convenzionale (la lotta di un poliziotto-giustiziere contro una banda di gangster), in realtà ficcante e autenticamente tesa a delineare, con consumata essenzialità stilistica, le figure-simbolo del cinema langhiano. Avviandosi verso la fine della sua sfolgorante carriera, L. sembra in grado di mantenere ancora vitale l'impronta incisiva del suo cinema. Nel 1954 realizza La bestia umana, dilaniante storia di un mancato uxoricidio per procura, che infallibilmente finisce in tragedia. Nel 1955 gira L'anno dei contrabbandieri, e subito dopo Quando la città dorme (1955), un'opera bruciante, in cui abbandona subito lo spunto iniziale – il posto di direttore messo in palio dall'editore tra quattro giornalisti impegnati a scoprire un assassino – indirizzando il suo interesse sugli efferati colpi bassi che i «candidati» mettono in campo l'uno contro l'altro. Un noir aspro, quasi feroce nella messa a fuoco della cinica spietatezza che attanaglia tali «insospettabili» figure nella corsa al potere. Anche L'alibi era perfetto (1956), ultimo film americano di L., pur se meno risolto, è un congegno stilisticamente essenziale, in cui si stratificano piani diversi capaci di mettere in gioco l'intelligenza dello spettatore, comunque chiamato alla presa d'atto di un vivere umano sostanzialmente privo di innocenza. Alla fine il regista tedesco ritorna in Europa, dove dirige senza perdere nulla della sua maestria La tigre di Eschnapur (1958) e Il sepolcro indiano (1960), quasi a completare una virtuale trilogia con l'arcaico film sceneggiato nel 1921. Ma il suo vero testamento è consegnato a Il diabolico dottor Mabuse (1960), in cui trova lo spirito per rimettere in gioco un epigono dell'antico Mabuse, dal profilo quasi anticipatorio di un allarmante mondo a venire. (el)"